Friday 2 March 2012

critica...

NON SO SE AVETE VOGLIA DI LEGGERE...MA QUESTO è QUEL CHE SI DICE DI ME PRIMA PARTE...

Il fascino del conflitto. Manicheo, insanabile, lacerante. Totale. La poesia di Sunshine Faggio colpisce il lettore come un gancio diretto al volto. Lo stordisce, lo sconvolge, lo tocca. Nel profondo.

Questa giovane autrice canta, con versi spesso “prosaici” (nella duplice accezione del termine: scritti nella forma tipicamente prosastica e, in senso figurato, duri, crudi, talvolta licenziosi), la poesia della contraddizione, del travaglio interiore. E i suoi componimenti lasciano il segno, assurgendo al rango di liriche dall’elevato potere visionario grazie alla dura e pura forza delle parole.

Nel caso di Sunshine Faggio, l’intensità emotiva e la suggestione evocativa non si ottengono attraverso il ricorso a complessi artifici formali. La cifra poetica dell’autrice non si risolve certo in un ampolloso e autoreferenziale carosello di figure retoriche, ossimori, metonimie o metafore patinate ed eteree. In Tempo d’attesa, il carnevale dello stucchevole virtuosismo e del barocchismo stilistico lascia il posto a una giostra rutilante di immagini vivide, folgoranti. Trancianti. Istantanee, “fotogrammi” cinematografici che ritraggono l’essere umano e le sue crisi di identità in tutta la loro cruda drammaticità. Senza sentimentalismi consolatori, senza utopie o idealismi da cullare e poi bruciare nel limbo della disillusione. E, tecnicamente, senza orpelli linguistici altisonanti o edulcoranti.

Pugni nello stomaco, per l’appunto, che riposano su tre leitmotiv principali: il primo è senz’altro rappresentato dal senso di profonda frustrazione della poetessa, smarrita e perennemente in rotta di collisione con un mondo in cui non si rispecchia e che la stringe in una morsa alienante. Un universo di fantasmi e automi algido e arido, lontano dalla sensibilità e dall’idealismo di fondo (quello sì, cullato gelosamente da Faggio nella propria segreta intimità: un sentimento stinto come un sogno abortito su una volta di stelle ridotte in polvere) di una ragazza inquieta e romantica.

Sunshine Faggio è uno spirito libero, imprigionato alle catene delle costrizioni e dei vincoli culturali; vittima degli schematismi rigidi imposti da un “mostro” sociale che ha partorito un macrocosmo distorto e angosciante. Per certi versi orrorifico. “Il sonno della ragione genera mostri”, ricordava Francisco Goya in una celeberrima acquaforte. E il sonno della civiltà genera incubi, leviatani della mente: Faggio si sente costretta in una dimensione straniante e alterata, dominata da convenzioni aberranti, che è materializzazione dei suoi demoni, incarnazione (e metafora) delle sue paure più recondite. Così, il sentimento di ostinata ribellione sfocia in componimenti strazianti senza voce e senza titolo, identificati solo da un’asettica numerazione in caratteri romani. Liriche cupe, fosche, calate in un’atmosfera di apocalittica rassegnazione che degenera nella distruttiva (e suadente) tentazione di autolesionismo. Ecco perché la vita, più che un vivere, diventa un sopravvivere, nel purgatorio dell’apatia.


Non c’è traccia di aulicismi, di autocompiacimento o di retorica ridondante nella poesia di Faggio. C’è solo il grido lacerante di rivolta interiore, espresso attraverso versi espliciti, iconici, al limite della ruda brutalità:

"Le cose, gli avvenimenti,

le persone

mi hanno penetrata talmente tanto

che ora mi lasciano fredda.

Sono una scarpa usata,

un lobo dilatato,

un paio di pantaloni vecchi,

un cane maltrattato.

Sono la vagina di una puttana.

Quando tutto filtra in profondità,

dopo,

è necessario avere ogni giorno di più

per tornare a percepire la realtà con tanta forza."

Il secondo, imprescinsibile filo conduttore della raccolta è incarnato dal tema del conflitto amoroso. Una poetica straziante, che dilania l’autrice nella sua ricerca disperata di un equilibrio, di un’armonia impossibile. In preda all’impatto emotivo travolgente del sentimento bruciante, lo spirito si spoglia vomitando tutte le sue contraddizioni, e dimenandosi in una lotta antitetica e titanica fra gioia e sangue. Fra sorrisi e lacrime. Fra rinascita e morte interiore. Nel tentativo, forse, di esorcizzare emozioni troppo intense e violente per rimanere costrette nelle viscere dell’anima: voci che hanno bisogno di gridare, di uscire fuori.

Il risultato è una lirica potente e brutale, senza mendaci illusioni di poesia. E, si badi bene, non c’è alcuna contraddizione in quest’ultimo assunto, perché la carica evocativa di Faggio nasce esattamente dalla sua esigenza di affrancarsi dalla poetica del mythos, dell’incanto, della sublimazione celestiale. Sprigionandosi invece, nella sua “ubris” visionaria, in versi crudeli senza pietà


L’ultimo, ma non certo meno significativo, filone semantico caratterizzante l’opera di Faggio ruota attorno al leitmotiv del viaggio. Viaggio inteso come come predisposizione mentale. Come filosofia e modo di essere. Viaggio come contaminazione, voglia di misurarsi con l’alterità. Faggio trova nel confronto con costumi diversi, con universi valoriali e stili di vita contrapposti a quello cui si è suo malgrado assuefatta un eldorado di purificazione spirituale. Un luogo vergine, incontaminato dove riposare il suo Io “stuprato”. Un buen retiro dell’anima.

Il potere liberatorio attribuito dalla poetessa all’esperienza del viaggio traspare dai versi vibranti della lirica XX:

"Voglio vivere

dove

si respira

meticciato;

sentirlo

nella pelle,

nelle vene.

Dimenticare

il concetto di razza

in un’esplosione di colori."

Una speranza, una dichiarazione di volontà racchiusa nella sintesi di dieci versi solari e gioiosi. La sensazione è che Faggio voglia ritagliarsi un universo spirituale individuale da custodire gelosamente nella sua interiorità. E forse il bisogno è dettato proprio dalla necessità di sfuggire alla crisi di identità, di ragione e di sentimento in cui i tentacoli di una società omologatrice e spersonalizzante rischiano di farla sprofondare. Così, ecco che ai meccanismi fagocitanti di un mondo anestetizzato e intorpidito (e ormai esso, sì, straniero all’uomo) si contrappone la poetica liberatrice del crogiolo di culture e del meltin pot. Immersione nel calderone ribollente della diversità: consolazione e catarsi. Espressione finalmente libera di un Io inquieto e angosciato, certo, ma intimamente trepidante e fremente d’amore:

[...]

Sono in un altro continente

e mi sento a casa.

Io, che appartengo a un luogo

solo durante il viaggio.

Sono nomade,

zingara apolide,

con sangue viandante nelle vene,

irrequietezza che mi è organica,

spostarsi una mia necessità fisiologica.

La mia aria,

i chilometri percorsi;

il mio cibo,

le altre razze;

mi disseta la diversità.

[...]


Matteo Bordiga